“Colui che abbandona l’attaccamento, offre tutte le sue azioni al Brahman (la fonte di ogni cosa), è come una foglia di un fiore di loto che resta pulita e non può essere bagnata dall’acqua.
Coloro che seguono il cammino in modo disinteressato, compiono azioni con il corpo la mente e con i sensi solo per raggiungere la realizzazione del Sé.
Colui che è unito con la coscienza abbandona ogni attaccamento ai risultato delle sue azioni, raggiunge la pace. Invece colui che non è unito alla coscienza, che è attaccato ai frutti del suo lavoro e dominato dai suoi desideri, è prigioniero di tutto ciò che fa.”
Baghavad Gita 5.10-11-12
Dopo aver aver evidenziato la differenza tra azione e non azione (vedi capitolo quattro), qui Krishna suggerisce ad Arjuna che nel suo caso il miglior cammino sarebbe proprio quello dell’azione e non quello del Sannyasi ovvero colui che rinuncia alla società e si ritira in luoghi isolati o in un monastero. Sembra quasi contraddittorio che un capitolo dedicato alla rinuncia inizi con un invito all’azione. La rinuncia qui presentata fa ovviamente riferimento ad una rinuncia ai frutti delle nostre azioni. Pur impegnando tutta la nostra energia e la nostra passione nel nostro lavoro dobbiamo sempre ricordarci che il risultato di queste azioni può essere molto diverso da ciò che ci aspettiamo. Krishna ci ricorda che entrami i cammini (l’azione e la completa rinuncia) portano alla stessa liberazione dagli attaccamenti, nonostante ciò la Gita è di fatto un libro scritto per i guerrieri spirituali e non per i monaci (a differenza degli “Yoga Sutra” di Patanjali che furono scritti apposta per guidare la vita monastica).
Nel corso del capitolo Krishna ricorda ad Arjuna che anche una vita di successi non porta a nulla se non c’è la consapevolezza ultima che siamo ed apparteniamo alla fonte di tutte le cose per questo il saggio vede negli altri un riflesso di sè stesso e risponde con equanimità alla buona ed alla cattiva sorte.
“Non dipendente da nessun supporto esterno, il saggio realizza la felicità nel Sè, con la coscienza unificata attraverso la meditazione, egli ottiene una beatitudine indissolubile.
Il piacere generato dai sensi ha un inizio ed una fine, ed è la origine di tutte le nostre sofferenze, o figli di Kunti, il saggio non gioisce in essi.”
Gita 5.21Viene sottolineato qui il ruolo dei nostri sensi che servono di certo per conoscere il mondo che ci circonda ed accettare il piacere non è di fatto una cosa negativa anzi è utile per compiere il nostro cammino. Il problema si genera quando la ricerca di piacere diventa patologica e ci impedisce di osservare con distacco la dualità della vita.
“Il saggio domina i sensi, la mente e l’intelletto con la meditazione, avendo la liberazione come unica meta suprema; libero da desideri egoistici, rabbia e paura, il saggio vive sempre in libertà”
Gita 5.28
Krishna introduce infine il concetto di meditazione che verrà affrontato in dettaglio nel capitolo 6. Di certo la meditazione ha bisogno di pratica ed un impegno costante da parte nostra per essere efficace. Il problema è che la maggior parte degli esseri umani si scoraggia dopo pochi mesi di pratica, infatti non raggiungendo i risultati sperati si scoraggia ed abbandona la pratica ritenendola pressoché inutile.
A presto
Maitreya