“Il discernimento tra reale e irreale si fonda sull’incrollabile convinzione che solo Brahman è reale e che l’universo fenomenico è non-reale”
Adi Shankara

La parola discriminazione ha nella nostra lingua una nota negativa, parliamo infatti spesso di discriminazione sociale o razziale. Nel Vedanta, ovvero la parte finale nonché culmine dell’insegnamento vedico, la parola Viveka (dal sanscrito vich che significa dividere o discernere) indica un giudizio chiaro, un discernimento tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra ciò che è impermanente e ciò che non lo è. Da qui il concetto di Brahman che ricordo non è affatto un termine religioso; Brahman indica qualcosa che non può essere spiegato con le parole, qualcosa di infinito ed impermanente, di Assoluto per utilizzare le parole di Shankara (parlerò di Sankara in un post dedicato), qualcosa che permea tutto l’universo; per le menti più scientifiche potrebbe essere tradotto come energia universale o campo elettromagnetico universale.

Siamo abituati ad osservare l’universo attorno a noi utilizzando le coordinate spazio-tempo; questo implica che tutti gli oggetti animati e non animati che osserviamo cambiano e sono soggetti al ciclo di nascita e morte e trasformazione. Tutti questi oggetti quindi sono impermanenti. Il concetto di Viveka ci introduce qualcosa che non lo è, questo qualcosa non è ovviamente visibile agli occhi e può essere trovato solo nel silenzio e nelle pace della meditazione.

Praticare quotidianamente Viveka significa vedere l’impermanente dentro ogni cosa, in ogni situazione, in ogni persona che incontriamo e quindi sempre meno dovremmo andare alla ricerca di ciò che è invece permanente. La costante ricerca di piacere ad esempio attraverso il sesso, il cibo o le varie distrazioni della mente non porta ad una felicità durevole. La felicità impermanente ed immutevole invece può avvenire solo quando non ci identifichiamo con il corpo fisico e la nostra mente ma con l’Essere o il Testimone che osserva la nostra mente ed il nostro corpo e qui purtroppo cadiamo in una trappola dialettica, il linguaggio stesso è incapace di descrivere questo osservatore proprio perchè sta al di là della mente e del pensiero e quindi del linguaggio, non è nemmeno un concetto mentale che deve essere capito, il capire infatti è ancora un atto mentale. È solo quando la mente entra nel silenzio ovvero cessa il suo processo che possiamo sperimentare questo Essere impermanente. Non è cosa facile e non sempre è possibile, possiamo avere delle percezioni di questa immutabilità ma poi cadere di nuovo nelle varie trappole dell’ego, poco importa, l’importante è fare del nostro meglio e non auto-condannarci per la nostra umanità limitata che sempre si manifesta, la nostra forma come la nostra mente infatti sono imperfetti e così deve essere. Dobbiamo quindi accettare queste nostre limitazioni e dedicarci costantemente alla pratica di Viveka, che è il prerequisito fondamentale per poter sviluppare il non-attaccamento (Vairagya) che è il secondo tassello di Subecha (ricerca della verità) e che sarà argomento del prossimo articolo.

A presto
Maitreya